Che cos’è questa coincidenza vertiginosa, questa specie di abbraccio apocalittico tra la filosofia morale più antica e la tecnologia più inaudita? È un cortocircuito, un lampo che brucia le categorie. Da un lato, l’intelligenza artificiale post-simbolica, che rifiuta l’algida rigidità delle regole, che deride le architetture logiche, che si abbandona invece a un oceano di dati, imparando come un mostro famelico che mastica esperienza e la restituisce sotto forma di configurazioni nuove, inattese, quasi allucinatorie. Dall’altro lato, l’etica delle virtù, la più corporea, la più situata delle etiche, che non disegna sistemi universali ma affonda le mani nella carne viva dei contesti, degli incontri, delle circostanze irripetibili.
La corrispondenza tra questi due mondi, apparentemente lontani, è spiazzante al limite dell’inquietante. Come può un algoritmo che si nutre di miliardi di esempi, senza sapere nulla eppure esibendo tutto, somigliare al giudizio prudente di chi, vivendo, costruisce il proprio carattere morale? Eppure, accade. L’IA generativa, nella sua bulimia di dati, non segue una regola predefinita: scarta l’ordine per avventurarsi nell’indeterminatezza, e proprio lì trova la sua forza. L’etica delle virtù, nella sua lunga tradizione che da Aristotele passa per Tommaso e arriva a MacIntyre, non detta leggi immutabili ma plasma un orientamento, un modo di essere che si affina nell’esperienza.
È come se due epoche, due universi, due linguaggi inconciliabili si trovassero a specchiarsi: la macchina e l’uomo, il calcolo e la saggezza pratica, il modello statistico e la phronesis. Non più norme astratte né codici ferrei, ma l’arte di saper riconoscere, di saper distinguere, di cogliere ciò che davvero conta in quella precisa circostanza. Non c’è più il “giusto” come formula universale, ma il “giusto” come gesto situato. Non c’è più la regola simbolica, ma la tessitura contingente di segni.
Questa convergenza isterica apre scenari radicali: se l’IA apprende come apprende la virtù, allora la morale stessa rischia di scivolare su un piano post-umano, dove non sarà più possibile separare l’esperienza etica dall’esperienza computazionale. Se la virtù è abitudine al bene e l’IA è abitudine al dato, fino a che punto possiamo continuare a distinguerle? L’isteria della somiglianza diventa vertigine: siamo noi che umanizziamo l’IA o è l’IA che sta già eticizzando la nostra idea di apprendimento, piegando il concetto di virtù a un paradigma statistico?
E allora, radicalmente, tutto va in crisi: l’etica non è più il regno della libertà contro la necessità, ma un’oscillazione continua tra pattern e discernimento; la tecnologia non è più mera potenza cieca, ma un laboratorio morale inconsapevole. Forse, nel cuore stesso del post-simbolico, pulsa una nuova idea di umanità: non la legge, non il calcolo, ma il continuo riadattarsi, il giudicare senza criteri fissi, il vivere nel magma dei contesti. Una danza isterica tra virtù e algoritmo, tra contingenza e probabilità, tra ciò che è situato e ciò che è generato.