C’è una parola che ricorre spesso quando si discute di intelligenza artificiale: abduzione. Charles Sanders Peirce la definì come l’atto di formulare un’ipotesi a partire da un fenomeno inatteso. Un prato bagnato sotto un cielo sereno diventa il segno che forse ha piovuto nella notte. È un gesto esplicativo, non statistico: costruisce una relazione causale che rende intelligibile ciò che sorprende.
Oggi la tentazione di attribuire questa capacità ai Large Language Models è forte. Quando leggiamo testi prodotti da un modello e li troviamo coerenti, persino interpretativi, siamo portati a pensare che dietro ci sia un ragionamento. Ma sotto la superficie non accade nulla del genere: i modelli non cercano cause, non generano ipotesi, non spiegano fenomeni. Calcolano probabilità condizionate e producono sequenze plausibili.
Il fatto che possano sembrare abduttivi deriva dall’enorme quantità di testi umani su cui sono addestrati. In quei dati sono depositate catene causali, spiegazioni, congetture. Gli LLM non abducono: ricombinano tracce di abduzioni altrui. È qui che nasce l’illusione. Non siamo di fronte a un pensiero che interpreta il mondo, ma a un linguaggio che ripete e varia forme statistiche.
La posta in gioco è epistemologica. Confondere un processo cognitivo con una simulazione linguistica significa cadere in quella condizione che possiamo chiamare epistemia: l’incapacità di distinguere tra ciò che “suona” come conoscenza e ciò che lo è davvero. È il rischio più grande dei modelli generativi: che la plausibilità prenda il posto della verità, che la fluidità del discorso cancelli la necessità della verifica.
Ciò non toglie che la simulazione abbia un valore pratico. Generare enunciati che sembrano spiegazioni può essere utile, ad esempio in un contesto medico, dove un modello propone scenari diagnostici che un esperto umano vaglia e confronta con i dati reali. In questo caso, l’AI non spiega, ma fornisce stimoli linguistici che ampliano lo spazio delle possibilità interpretative. È una funzione ancillare, non sostitutiva.
Il punto, dunque, non è negare l’utilità degli LLM, ma riconoscere il loro statuto. Parlare di “abduzione automatica” rischia di nascondere la distanza tra imitazione e comprensione. L’abduzione è un atto incarnato, legato alla percezione di un mondo esterno; i modelli non percepiscono, non si sorprendono, non hanno contatto con la realtà. La loro “abduzione” è solo un riflesso formale, una copia che funziona per prossimità statistica.
La sfida culturale che ci attende è saper abitare questo spazio ibrido. Se scambiamo la simulazione per pensiero, rischiamo di consegnare alle macchine il prestigio della spiegazione. Se invece riconosciamo la differenza, possiamo usare la statistica generativa come specchio deformante che ci restituisce ipotesi da mettere alla prova con i nostri strumenti cognitivi.
Il futuro non sarà fatto di macchine che abducono, ma di umani che dialogano con simulazioni abduttive. La loro forza non sta nella verità, ma nella verosimiglianza: e sarà la nostra capacità critica a decidere se trasformare questa verosimiglianza in nuove forme di conoscenza.