La trasformazione digitale non è più una transizione da compiere: è una condizione strutturale. Lungi dall’essere un’opzione tecnologica, essa si configura come uno spazio epistemico, politico ed esistenziale che condiziona in profondità l’organizzazione della società, la distribuzione del potere e le forme della conoscenza. Come osserva Luciano Floridi nel suo recente intervento su La Lettura del Corriere della Sera, “viviamo in un’epoca in cui la responsabilità non è più soltanto una virtù individuale, ma una necessità sistemica”. La sfida è quella di ridefinire le coordinate normative e progettuali in un mondo in cui software, algoritmi e reti neurali hanno acquisito un grado crescente di agency autonoma.
La digitalizzazione ha disintegrato la tradizionale dicotomia tra fisico e virtuale. Le città, i corpi, gli oggetti e le istituzioni si ristrutturano come nodi di una rete iperconnessa in cui ogni gesto produce dati, e ogni dato può essere computato, profilato, monetizzato. In tale contesto, la questione etica non riguarda solo l’uso della tecnologia, ma la sua architettura. Non sono solo le scelte morali ad essere rilevanti, ma i dispositivi normativi e algoritmici che prefigurano anticipatamente possibilità d’azione, orientamenti di comportamento e gerarchie di valore.
Floridi parla di “architetture di responsabilità” come strumenti fondamentali per restituire all’umano la capacità di orientarsi. Questo implica una governance distribuita e trasparente, fondata sulla accountability algoritmica e sulla progettazione etica dei sistemi. È necessario riconoscere che molti degli impatti più insidiosi dell’intelligenza artificiale non sono riconducibili a singole intenzionalità maligne, ma emergono da sistemi opachi che operano su larga scala, con logiche che sfuggono ai modelli normativi tradizionali.
La regolazione, come nel caso dell’AI Act europeo, rappresenta un primo tentativo di imbrigliare l’evoluzione tecnologica dentro confini giuridici. Ma la velocità con cui le tecnologie si modificano – e la loro natura transnazionale – rende evidente che nessuna normativa potrà mai essere completamente sufficiente, se non accompagnata da una cultura pubblica del digitale. Una cultura che includa il pensiero critico, la trasparenza dei modelli decisionali e una riflessione costante sulle forme di potere dissimulate negli ambienti digitali.
Il problema cruciale, allora, non è solo “cosa può fare l’intelligenza artificiale”, ma chi la progetta, come lo fa, e per quale finalità. La responsabilità, in questo senso, non è solo giuridica, ma epistemica e politica. La società digitale richiede nuovi paradigmi di legittimazione: non possiamo più basarci su modelli novecenteschi di delega tecnica o neutralità dello strumento.
Come Floridi ammonisce, il rischio non è tanto l’apocalisse tecnologica, quanto l’assuefazione silenziosa a un mondo in cui le decisioni cruciali – economiche, sociali, giudiziarie – sono prese da sistemi di cui ignoriamo il funzionamento. In questo scenario, l’etica deve tornare a essere non un freno all’innovazione, ma la sua condizione di possibilità.
Testo ispirato dall'articolo "La responsabilità nell’era digitale"
di Luciano Floridi
La Lettura del Corriere della Sera