Da Google a ChatGPT
Da Google a ChatGPT
Per anni abbiamo “cercato con” Google. Oggi sempre più spesso “chiediamo a” ChatGPT. Sembra una sfumatura, ma questa piccola svolta linguistica racconta una trasformazione profonda nel nostro rapporto con l’informazione digitale — e forse con la nostra stessa identità.
Cercare con Google significava muoversi in uno spazio ipertestuale, selezionare, valutare, comparare fonti. Era un atto di cooperazione strumentale tra noi e un motore di ricerca: la macchina ci indicava, ma la decisione restava nostra. In quel gesto, l’intelligenza era ancora una funzione umana. Con l’arrivo dei modelli linguistici generativi, come ChatGPT, è cambiato tutto.
Ora non esploriamo link, ma dialoghiamo con un’interfaccia. Non componiamo più query, ma formuliamo domande. È il passaggio da una ricerca distribuita a una risposta sintetica. E soprattutto: da uno strumento a un interlocutore apparente. Chiedere “a” un’IA comporta un atto dialogico, quasi relazionale. Proiettiamo sulla macchina capacità che non ha: intenzione, comprensione, persino coscienza. Non perché ci inganni, ma perché siamo programmati per riconoscere senso nel linguaggio.
Le conseguenze non sono solo cognitive, ma antropologiche. Stiamo delegando parte del nostro processo conoscitivo a un’entità che parla come noi, ma non è come noi. Il rischio? Perdere la distinzione tra sapere critico e risposta algoritmica. E abituarci a un mondo dove la verità non si cerca, ma si riceve già confezionata.
Dietro questa transizione tecnologica si cela una rivoluzione semiotica: l’intelligenza artificiale genera senso, ma non lo comprende. Siamo noi a conferirglielo, con le nostre domande. E in quello specchio linguistico — se non stiamo attenti — potremmo finire per vedere solo ciò che vogliamo sentirci dire.
Tratto da Spazi Culturali Luglio-Agosto 2025