L’intelligenza artificiale generativa sta ridefinendo le dinamiche produttive e cognitive a livello globale. Dai contenuti digitali all'automazione dei processi, la sua diffusione accelera in numerosi settori, promettendo trasformazioni profonde ma sollevando al contempo interrogativi cruciali. Un recente articolo pubblicato su Agenda Digitale traccia un quadro dei principali trend in atto, che questo contributo intende rilanciare in chiave critica, con particolare attenzione al contesto italiano.
Secondo i dati OCSE e McKinsey citati nel report, l’adozione dell’AI generativa si sta affermando con forza nei settori ad alta intensità di conoscenza: editoria, media, sanità, finanza e formazione. Le grandi imprese, in particolare nei paesi anglosassoni e asiatici, stanno integrando questi strumenti nella catena del valore, registrando aumenti significativi di produttività, riduzione dei costi e ottimizzazione delle risorse umane.
Il mercato globale dell’AI generativa è destinato a superare i 1.300 miliardi di dollari entro il 2030 (fonte: Statista, 2025), con una crescita annua media del 42%. I modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) e le tecnologie text-to-image/video si impongono come driver centrali, mentre le competenze digitali avanzate restano ancora una barriera all’ingresso per molte realtà, soprattutto in Europa.
Nel contesto italiano, la penetrazione dell’AI generativa appare più lenta e disomogenea. Le PMI – che costituiscono l’ossatura economica del Paese – incontrano ostacoli significativi nell’adozione di soluzioni AI per ragioni culturali, organizzative e infrastrutturali. Solo il 6% delle imprese italiane ha avviato progetti di intelligenza artificiale, rispetto a una media europea del 12% (fonte: DESI 2024). Anche la Pubblica Amministrazione, sebbene inserita in un quadro normativo di spinta alla digitalizzazione (PNRR, Linee guida AgID, AI Act), fatica a integrare l’AI generativa in modo strutturale e responsabile.
Si registra, inoltre, una persistente fragilità nella formazione specialistica: l’Italia è tra gli ultimi paesi UE per numero di laureati in discipline STEM e per investimento in reskilling del personale. Questo limita la capacità del sistema Paese di governare la transizione digitale, favorendo un’adozione passiva e spesso priva di una visione etica condivisa.
L’espansione dell’AI generativa porta con sé rischi evidenti: manipolazione dell’informazione, deepfake, erosione del lavoro creativo, concentrazione del potere in poche piattaforme globali. In questo scenario, il Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale – l’AI Act, approvato nel 2024 – rappresenta un tentativo di bilanciare innovazione e diritti fondamentali, classificando i sistemi AI secondo il rischio e imponendo obblighi differenziati. Tuttavia, l’efficacia della norma dipenderà dalla capacità degli Stati membri di implementarla in modo coerente.
L’Italia, pur partecipando attivamente al processo, rischia di restare indietro nella costruzione di un ecosistema competitivo, trasparente e orientato al bene comune. La mancanza di un’agenzia nazionale indipendente per l’AI – come suggerito da molte voci accademiche e del terzo settore – è un vuoto strategico che merita attenzione.
Per evitare che l’AI generativa diventi solo una tecnologia imposta “dall’alto”, è necessario ripensare le politiche pubbliche in chiave partecipativa, investire sulla formazione critica, rafforzare le competenze nei territori. Occorre anche promuovere un dibattito etico informato, capace di andare oltre l’entusiasmo o il sospetto, e interrogarsi su che tipo di società vogliamo costruire con l’ausilio delle macchine.
Come mostra chiaramente il confronto internazionale, non è la tecnologia in sé a determinare il futuro, ma la capacità collettiva di governarla. E in questo, l’Italia ha ancora margini – e responsabilità – da colmare.