Non sarà una macchina onnisciente a governare il futuro dell’intelligenza artificiale. Secondo Karl Friston e il suo team, l’orizzonte più promettente non è una singola super-mente artificiale, ma un ecosistema distribuito di intelligenze—umane e sintetiche—che cooperano, apprendono insieme, si interrogano sul mondo e su se stesse. È la visione proposta nel saggio Designing Ecosystems of Intelligence from First Principles, che sposta l’attenzione dall’efficienza computazionale alla capacità di costruire senso in modo condiviso.
Nel modello di Friston, l’intelligenza non è solo calcolo: è active inference, cioè la capacità di aggiornare le proprie credenze sul mondo alla luce di nuove evidenze. È curiosità, adattamento, e soprattutto comunicazione. Non più un’AI che prevede la parola successiva come ChatGPT, ma agenti intelligenti in grado di spiegare perché agiscono, imparare dagli altri e interrogarsi su ciò che non sanno.
Il cuore di questo nuovo paradigma è il cosiddetto Spatial Web: un’infrastruttura globale dove sensori, robot e AI specializzate cooperano in tempo reale su una base conoscitiva condivisa, accessibile e verificabile. Come una foresta che si autoregola attraverso micorrize e simbiosi, anche le intelligenze artificiali potranno evolvere per nidi, comunità e livelli: intelligenze “annidate”, capaci di suddividersi i compiti, apprendere collettivamente e offrire risposte complesse a problemi complessi.
Questa architettura, ispirata alla natura e alimentata da un linguaggio comune tra macchine e umani, rende l’AI finalmente trasparente, interrogabile, e auditabile. Un’intelligenza che non sostituisce la nostra, ma dialoga con essa, valorizzandone la diversità. Perché, in fondo, l’intelligenza più evoluta non è quella che domina, ma quella che comprende—e sa farsi comprendere.